Si fa presto a dire, “ho le ossa grossa”, “non ci posso far niente, sono fatto così”,  “è colpa del metabolismo lento, io non mangio niente e ingrasso comunque”.

Quante volte si sentono queste frasi, per giustificare anni ed anni di diete fallite e difficoltà a perdere peso? Moltissime, oserei dire troppe! Ma dal punto di vista scientifico, è davvero così? Esistono davvero persone con una massa scheletrica più prepoderante, o la difficoltà nel perdere grasso dipende da qualcos’altro?

LE OSSA GROSSA NON ESISTONO!

Togliamoci subito questo dubbio esistenziale: la cosiddetta costituzione robusta è un vero e proprio alibi utilizzato per giustificare uno stato di sovrappeso o addirittura obesità dovuto semplicemente a un eccesso di grasso. 

Il peso delle ossa è pari a circa il 20% del peso corporeo (in un soggetto in peso forma), cioè circa 15 kg in un adulto di 75 kg.
Anche ammessa (e non concessa) una variabilità individuale molto alta, pari al 15%, del peso delle ossa tra due persone della stessa altezza, stiamo parlando di 2 kg di differenza, e cioè uno scostamento dalla media di un peso veramente esiguo. In un soggetto che pesa ad esempio 60 kg, il peso dello scheletro è 12 kg ed ammettendo una variabilità individuale al 10 %, stiamo parlando di poco più di un kg di differenza.

Tali dati non giustificano dunque una differenza sostanziale nel peso forma: un soggetto che pesi 10 o 15 kg in più rispetto al peso forma, se dice che ciò dipende dalle “ossa grosse”, sta dicendo ovviamente una bugia. 

ALLA SCOPERTA DELL’ORGANO ADIPOSO

Nonostante quello delle ossa grosse sia un vero e proprio mito, c’è una giustificazione purtroppo veritiera della differenza di perdita di peso tra due soggetti apparentemente identici, problema molto noto a chi è stato sovrappeso/obeso e vuole ora provare (o è già riuscito) a cambiare vita.

A parità di peso, due soggetti di pari altezza possono perdere peso molto diversamente. Durante l’anamnesi, una delle prime domande che pongo ai miei pazienti è: Sei mai stato/a in sovrappeso?” e, se la risposta è affermativa, riusciamo effettivamente a dedurre quanti e quali problemi potranno principalmente svilupparsi.

Il grasso è l’organo che ci ha permesso di sopravvivere a tutte le sfide che la natura ci ha presentato nel corso dei secoli, quando il concetto di “casa” e “riscaldamento” erano una lontana fantasia e molto del tempo era speso cercando di ottenere cibo e un ambiente caldo.

La capacità degli adipociti (le unità funzionali del grasso) di replicarsi e la capacità di dare priorità ad altre cellule nei processi di dimagrimento troppo repentini, lo rendono un attore fondamentale della nostra sopravvivenza. Immaginate la situazione di un cacciatore-raccoglitore che per qualsiasi motivo non riesce a ottenere cibo per tanto tempo. Pensare, quel determinato contesto, di perdere grasso e mantenere il muscolo è utopico, semplicemente perché il muscolo consuma più del grasso, che invece funge anche da deposito energetico.

Trasliamo questa situazione ai giorni nostri e otteniamo lo stesso tipo di ragionamento quando si passa da regimi ipercalorici o eucalorici a regimi esageratamente ipocalorici. La situazione che il nostro corpo deve affrontare è similare, se la prendiamo solo dal punto di vista dietetico, e la risposta sarà la medesima: il grasso tenderà a mantenersi dando priorità alla degradazione muscolare.

Un concetto essenziale e da tenere bene a mente è che gli adipociti non muoiono, non vanno incontro a necrosi. Sono dei sacchi che si riempiono quando si ingrassa, si moltiplicano, proliferano. Quando si dimagrisce, questi “sacchetti” si svuotano, ma non vanno incontro ad autodistruzione se non in casistiche particolari sotto stimoli ancora più particolari. Anche da vuoti, gli adipociti continuano a esercitare il loro effetto che è estremamente vario a livello endocrino.

COSA COMPORTANO TALI CARATTERISTICHE DEL TESSUTO ADIPOSO?

Il grasso è progettato per “proteggerci” dalle carestie e dalla scarsità di cibo, dando la precedenza alla degradazione muscolare nei dimagrimenti troppo veloci. Gli effetti di una passata obesità si riflettono in una capacità di dimagrimento peggiorata a causa dei numerosi effetti endocrini che gli adipociti continuano a esercitare.

La nostra capacità di alternare l’ossidazione di grasso o di carboidrati viene definita flessibilità metabolica, e può essere allenata attraverso manipolazioni dietetiche e allenanti.

Questa importantissima peculiarità che ha il corpo di alternare tra metabolismo glicolitico e ossidativo è una delle eredità più pesanti che ci lascia l’essere stati in sovrappeso, poiché sono proprio i meccanismi ad esso sottostanti ad a essere particolarmente alterati anche negli anni successivi. Questo cambiamento di substrato, che avviene in maniera estremamente efficace in chi ha alternato tipologie di allenamenti e stimoli in maniera ragionata, sullo stesso soggetto che però ha un passato obeso non risulta essere così efficace.

Chi, ad esempio, ha una buona flessibilità metabolica e pesa 80 kg può pensare di prendere peso “pulito” con una dieta da 3500KCAL con macro equamente distribuiti e magari una leggera ciclizzazione.

La stessa persona di 80 kg, con 3500kcal e macronutrienti equamente distribuiti farà sicuramente più fatica a rimanere pulito, e in qualche caso si andrà incontro al disastro che tutti conosciamo, cioè aumentare di peso con predominanza di grasso.

Teniamo presente che stiamo parlando in questo caso solo di ottica nutrizionale, e non correttiva con l’allenamento.

Ma non è finita qui: parità di dieta e composizione corporea, una persona con un passato di obesità porterà a lungo termine gli strascichi di sensibilità insulinica peggiorata, e quindi di flessibilità metabolica poco efficiente.

Dai dati di innumerevoli ricerche scientifiche sappiamo che siamo in grado, attraverso fattori come la dieta e l’attività fisica, di imprimere sul nostro DNA delle piccole modifiche in grado di influenzare poi il prosieguo della nostra esistenza: si chiama epigenetica ed è un campo di ricerca che negli ultimi anni ha avuto il suo boom per quanto riguarda le scoperte sull’influenza che ha il cibo che ingeriamo sul nostro corredo genetico. Senza illuderci di aver trovato l’ennesimo Sacro Graal, possiamo ragionare su questo: possiamo identificare quali sono i fattori influenti e quanto possono esserlo effettivamente. Intanto, i cosiddetti set-point adiposi, cioè il livello di grasso a cui il nostro corpo spontaneamente tende a portarsi, viene influenzato da:

  1. Alimentazione della madre durante la gravidanza;
  2. Percentuale di grasso durante l’infanzia, fino agli 8-10 anni nello specifico;
  3. Percentuale di grasso durante gli anni passati e per quanto tempo è stata mantenuta.

Inoltre, dei fattori che risultano evidenti dalla letteratura disponibile sono:

  1. Le alterazioni cognitive che l’obesità o il sovrappeso causano e che perdurano anche molti anni dopo l’avvento di un dimagrimento;
  2. L’influenza della dieta occidentale molto ricca di sapori altamente stimolanti, in grado di alterare i recettori presenti sul tessuto adiposo, che si è visto diventare ancora più sensibili dopo un passato di obesità;
  3. L’essere stati obesi o in sovrappeso porta ad alterazioni cognitive del controllo dell’introito calorico che rende molto pericolose le ricariche di carboidrati.

Ed ancora, la passata obesità/sovrappeso hanno influenze sia biochimiche che mentali, e giocano un ruolo che spesso ci porteremo dietro tutta la vita nel nostro rapporto col cibo.

COSA SI PUO’ FARE?

La filastrocca è sempre la stessa: tramite una corretta manipolazione dietetica/allenante e col passare degli anni è possibile ristabilire l’equilibrio “perduto”. Tutto ciò deriva dal fatto che sappiamo per certo che l’esercizio fisico ben calibrato e la dieta sufficientemente ricca di stressor riescono ad agire sui fattori ormonali e su tutti i meccanismi coinvolti. Tuttavia dobbiamo avere l’accortezza di stabilire alcune variabili che saranno molto utili nel nostro percorso.

In primis, per capire la “gravità” del set-point è utile capire quando si è verificato “l’intoppo”, cioè quando la persona è stata in sovrappeso, o se la madre è stata esposta a carestia o al contrario se è stata sovrappeso durante la gravidanza. Una volta identificato quando si è verificato e di che entità è stato, potremo fare una stima sulla difficoltà e sugli step con cui procedere. Un sovrappeso mediato dai genitori è molto più lieve, in linea di massima, di uno maturato in 20 anni di “pratica”. Il primo avrà un’origine biochimica più facile da ricalibrare con l’alimentazione, il secondo necessiterà anche di soluzioni psicologiche.

Un percorso possibile sarà quindi:

  1. Ricomposizione corporea nella migliore maniera possibile;
  2. Sostituzione mentale dei cibi spazzatura in regime eucalorico con cibi più sani (rieducazione del palato);
  3. Aumento della massa muscolare se possibile con esercizi ad hoc di rimobilizzazione;
  4. Rimozione chirurgica del grasso in eccesso;
  5. Fase di riadattamento (da 1 a 3 anni)

Nell’ultima fase avremo un evidente squilibrio tra quello che il nostro cervello percepisce come “il nostro peso” e quello che il nostro corpo effettivamente porta con sé. Il set-point cerebrale ragionerà ancora con i kg di adipociti addosso e vi porterà stimoli sazianti molto diversi da quelli che arriveranno dopo che il tempo avrà riequilibrato le vie sopra menzionate.

Il corpo tende infatti a ragionare in due modi: attraverso le quantità di adipociti che “indossa” come una maglietta protettiva e attraverso gli stimoli che arrivano al cervello. La rimozione chirurgica porta via con sé buona parte della stimolazione endocrina “di ritorno” dagli adipociti, ma non elimina a prescindere la via che proviene dall’ipotalamo, che impiegherà diverso tempo per ricalibrarsi.

Tenendo sempre ben presente la particolarità individuale, vorrei terminare con alcuni consigli pratici che possono essere applicati da chi è stato in sovrappeso e mira comunque a elevati risultati estetici:

  1. Variare le diete in modalità progressiva e non utilizzare variazioni eccessivamente drastiche se non si è già “fit” o sotto il 15% da più di 2 anni.
  2. Cercare di utilizzare approcci a predominanza mono-substrato, cioè ad alti carboidrati o ad alti grassi;
  3. Arrivare a diete ipercaloriche con macronutrienti (carboidrati e grassi) equamente distribuiti solo dopo molte prove e tentativi per non vanificare parecchi mesi di lavoro;
  4. Utilizzare l’allenamento come jolly nella variazione dietetica: allenamenti fortemente glicolitici per migliorare la sensibilità insulinica quando è il momento di preparare il corpo a dosi maggiori di carboidrati;
  5. Fare particolare attenzione se si utilizzano regimi low-carb che prevedono ricariche di carboidrati : questi rappresentano un trigger molto forte per l’ipotalamo abituato ad abbuffate, pertanto è possibile che lascino strascichi di appetito aumentato per molti giorni seguenti, rendendo l’aderenza alla dieta molto più complicata.