I MACRONUTRIENTI

I MACRONUTRIENTI

I macronutrienti, quali sono e quanto sono importanti.

Non si può parlare di alimentazione se prima non conosciamo le fondamenta su cui tutte le diete e tutti i consigli che ci vengono dati si fondano: i macronutrienti. Conosciamo il cibo per quello che è, per come lo vediamo. La pasta è pasta, la carne è carne. Ma conosciamo di quale macronutrienti sono composti?

In questo articolo, analizzeremo quelli che sono i mattoni principali della nostra alimentazione: carboidrati, proteine e grassi.

MACRONUTRIENTI: I CARBOIDRATI

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I carboidrati, chiamati anche glucidi, sono il macronutriente più presente nell’alimentazione italiana e mondiale. Hanno una funzione principalmente energetica e sono un vero e proprio carburante per il nostro corpo.

Pensate che nel nostro organismo abbiamo una riserva di 350-500 g di glucidi sottoforma di glicogeno, divisi tra muscoli e fegato.

Perché il nostro corpo conserva i carboidrati?

Perché per alcuni tessuti e organi sono ESSENZIALI: il Sistema Nervoso Centarle (SNC), i globuli rossi, la midollare del surrene sono definiti tessuti glucosio dipendenti, proprio perché dipendono dal glucosio per funzionare al meglio.

Proprio per questi motivi, si stima che il fabbisogno minimo di glucosio dovrebbe essere di almeno 180 g al giorno, e può aumentare a seconda dell’attività fisica e lavorativa che la persona svolge.

Suddivisione dei carboidrati.

Scolasticamente, i carboidrati vengono suddivisi in semplici e complessi.

Gli zuccheri semplici più comuni si trovano nel saccarosio, miele, caramelle, gelati, yogurt, ma anche frutta (datteri, uva in grandi quantità) e perfino nel latte (col lattosio).

I carboidrati complessi sono tutti i derivati dei cereali (pane, pasta, pizza) ed i tuberi come le patate. I biscotti ed i prodotti da forno contengono un mix di carboidrati complessi (amido) con l’aggiunta di zuccheri semplici.

Tra i due, i carboidrati semplici sono correlati ad obesità ed iperglicemia, perchè è molto più facile eccedere e non accorgersi del quantitativo ingerito.  Una lattina di Coca Cola da 33cl, contiene 35g di zucchero. La persona non si accorge delle calorie e zuccheri ingeriti. Al pari i biscotti, dolci, merendine ecc.

Per questo nelle linee guida si consiglia di limitare i carboidrati semplici ma non la frutta e verdura. L’OMS consiglia al massimo il 5-10% delle calorie da zuccheri semplici (siamo intorno ai 25-50g al giorno).

In una dieta sana, i carboidrati complessi dovrebbero rappresentare il 50-55 % delle kcal totali. Se ad esempio seguo una dieta da 2000Kcal, dovrei introdurne almeno 1000 da carboidrati.

Ma questa regola vale per tutti? In realtà no.

Ognuno ha un fabbisogno specifico di carboidrati, e in alcune situazioni si preferisce limitarne il consumo. Una di queste è l’insulino-resistenza.

Carboidrati ed Insulino-Resistenza

La resistenza  insulinica è una condizione in cui c’è bisogno di un aumento dei livelli di insulina per esplicare le sue funzioni. Lo sviluppo do insulino-resistenza dipende strettamente dallo stile di vita, e in modo particolare esiste una forte correlazione tra questa e obesità e sedentarietà.

L’insulino-resistenza, nel cronico, può portare a quella che è una condizione abbastanza complessa, che è la sindrome metabolica. I soggetti con sindrome metabolica sono ad elevato rischio cardiovascolare.

Tra gli interventi volti a migliorare la sensibilità insulinica, la dieta e l’attività fisica svolgono un ruolo chiave. In modo particolare, in questi soggetti sarebbe opportuna abbassare la quota di carboidrati per un breve periodo di tempo in quanto i soggetti insulino-resistenti sono meno in grado di tollerare i glucidi e di mantenere i livelli fisiologici di glicemia postprandiale. Questo non significa dover seguire necessariamente diete low carb o chetogeniche, ma semplicemente tener presente che un minor carico glicemico dell’intera dieta può aiutare a rendere meno evidente la condizione di insulino-resistenza.

Ognuno di noi, in base alla propria storia, al proprio stato di salute e in base al proprio stile di vita ha un determinato fabbisogno di carboidrati, dipendente anche dal vostro obiettivo: mantenere il peso, mettere su peso, dimagrire. Questi fabbisogni è meglio farli stimare da un professionista, semplicemente perché è facile esagerare nell’uno o nell’altro senso.

MACRONUTRIENTI: LE PROTEINE

proteine

Tra i macronutrienti, le proteine sono quello con la maggior funzione plastica; costituiscono i nostri muscoli (20%), ma anche gli enzimi, alcuni ormoni e tante altre strutture del nostro corpo.

Le proteine sono costituite da aminoacidi differenti, più questi si avvicinano alla composizione dell’essere umano, più la fonte alimentare viene considerata con un valore biologico alto. I cibi proteici hanno due origini, abbiamo le proteine animali, con un alto valore biologico e le proteine vegetali a cui generalmente manca, almeno in parte, un aminoacido, rendendo così il loro valore biologico medio basso.

Quali sono le fonti di proteine?

Le fonti animali di proteine sono: la carne, il pesce, le uova e, in parte, i formaggi. Quelle vegetali sono invece i legumi, la soia e alcuni cereali come l’avena. Cereali (pane, pasta, riso, farro, ecc.) e legumi (ceci, piselli, soia, fagioli, ecc.), essendo di origine vegetale , contengono proteine a ridotto valore biologico e cioè di qualità non adeguata: da una parte sono poco digeribili, dall’altra non contengono, o contengono in quantità insufficiente, alcuni aminoacidi essenziali.

Per garantire la completezza proteica, anche consumando alimenti di origine vegetale, è fondamentale associare cereali e legumi consumando piatti della tradizione mediterranea: pasta e fagioli, zuppe di legumi con farro/orzo, riso e piselli, ecc.

Di quante proteine abbiamo bisogno?

Il fabbisogno giornaliero di proteine di un soggetto dipende da diversi fattori, come l’età, il sesso, il peso corporeo, lo stato fisiologico-nutrizionale e l’attività fisica svolta. Occorre ricordare che il corpo non fa scorta di proteine, come invece accadeva per i carboidrati, per questo è importante soddisfare il fabbisogno proteico quotidianamente garantendo il corretto quantitativo di aminoacidi essenziali.

Per la popolazione generale, se siamo soggetti sedentari, il nostro fabbisogno sarà di circa 1g/kg pc.

  • In gravidanza e allattamento, il fabbisogno aumenta e sarà di 1-1.2 g/kg pc.
  • Per gli anziani, il fabbisogno sarà di 1-1.2g/kg di pc.
  • Se segui una dieta vegana, il tuo fabbisogno proteico è aumentato di circa il 20-30%.
  • Per gli sportivi, il fabbisogno può andare da 1.4 fino 2 g/kg di pc.

Nella dieta, si tende ad aumentare il fabbisogno proteico, per 2 motivi principali:

  1. una dieta iperproteica aumenta il senso di sazietà ed aiuta quindi a sopprimere la fame
  2. le proteine preservano la massa magra: questo è importantissmo, perché quando siamo a dieta il corpo non fa differenza tra grasso e muscolo, se quindi non preserviamo la nostra massa muscolare, rischiamo di perdere peso andando ad intaccare la massa magra.

MACRONUTRIENTI: I LIPIDI

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I grassi definiti anche lipidi, sono un macronutriente con una funzione prevalentemente energetica ed in parte plastica (membrane cellulari). Tra i macronutrienti, sono i più “calorici”: apportano, per 1 grammo, mediamente 9kcal, al fronte delle 4 Kcal di proteine e carboidrati.

Il corpo utilizza questo macronutriente principalmente come riserva energetica, stoccandolo negli adipociti; tuttavia la sua rilevanza è fondamentale per la costruzione delle membrane cellulari e per una corretta sintesi e produzione di ormoni.

Suddivisione dei lipidi.

I lipidi si suddividono in: grassi saturi, grassi monoinsaturi e grassi polinsaturi.

Le principali fonti di grassi saturi sono gli alimenti animali, ed è anche questo il motivo per cui si raccomanda di non consumare alimenti animali in grandi quantità. La carne rossa, ad esempio, ne contiene elevate quantità.

I grassi monoinsaturi, quelli contenuti nel nostro olio di oliva, generalmente hanno un effetto migliore sul nostro organismo. Questi grassi permettono un buono stato nutrizionale e riducono il rischio cardiovascolare.

I grassi polinsaturi si suddividono in omega 3 e omega 6. Mentre gli omega 3 hanno generalmente un’azione antifiammatoria, la famiglia degli omega 6 tende, se in eccesso, a portare a reazioni infiammatorie nell’organismo. Le fonti principali di omega 3 sono frutta secca, semi e pesce azzurro. Buone fonti di omega 6 sono i semi oleosi, il germe o embrione di cereali, legumi e pseudo cereali, e i relativi oli estratti.

Tra i grassi troviamo anche il colesterolo. Questo è un costituente delle membrane cellulari e un precursore di ormoni steroidei, vitamina d e acidi biliari.

Quanti grassi possiamo mangiare al giorno?

L’apporto raccomandato è do 20-35% dell’energia totale. Si consiglia di assumere meno del 7-10% di grassi saturi per le conseguenze che questi hanno sulla salute. L’apporto dei polinsaturi consigliato è di 5-10%, con un rapporto tra 3-6 di 1:1. Infatti, un rapporto troppo sbilanciato verso gli 6, aumenta il rischio cardiovascolare.

In genere si raccomanda di non scendere mai sotto i 25-35 g di grassi, soprattutto se siete donne. Ricordiamo infatti che il nostro ciclo mestruale è influenzato dalla presenza o meno di determinati ormoni, e necessitiamo di un certa quantità di grasso corporeo per garantire la nostra fertilità.

ALLERGIE E INTOLLERANZE ALIMENTARI

ALLERGIE E INTOLLERANZE ALIMENTARI

Anche se spesso si tende a confonderle, allergie e intolleranze alimentari appartengono a due mondi completamente diversi.

La maggior parte delle persone non ha un’idea chiara a riguardo, perchè a volte possono riguardare gli stessi alimenti e, ancor di più, si è creato tutto un business a riguardo che confonde ancor più le idee.

Dopo questa lettura, ti sarà tutto più chiaro.

REAZIONI AVVERSE AGLI ALIMENTI

Iniziamo col dire che allergie e intolleranze alimentari sono sottogruppi di una famiglia ben più grande, quella delle reazioni avverse agli alimenti.

allergie e intolleranze alimentari

La definizione di “reazione avversa a un alimento” comprende ogni manifestazione indesiderata e imprevista conseguente all’assunzione di un alimento. La classificazione attualmente in uso, condivisa a livello internazionale, suddivide tali reazioni sulla base dei differenti meccanismi patologici che le determinano.

Tra le reazioni avverse ad alimenti, Allergia e Intolleranza alimentare sono le più frequenti.

ALLERGIA ALIMENTARE

L’Allergia Alimentare è una reazione avversa agli alimenti causata da un’ anomala reazione del sistema immunitario mediata da anticorpi della classe IgE, che reagiscono verso componenti alimentari di natura proteica. Può manifestarsi già in età pediatrica, oppure insorgere in età adulta: nel primo caso spesso regredisce (come ad esempio nel caso di latte e uovo), mentre se comparsa successivamente tende a persistere per tutta la vita.

L’allergia può presentarsi con un ampio spettro di manifestazioni cliniche che spaziano da sintomi lievi fino allo shock anafilattico, potenzialmente fatale. Segni e sintomi compaiono a breve distanza dall’assunzione dell’alimento (da pochi minuti a poche ore) e sono tanto più gravi quanto più precocemente insorgono.

Nella figura in basso, possiamo vedere gli alimenti che contengono circa il 90% degli allergeni alimentari. Crostacei, arachidi, frutta a guscio, uova, latte vaccino, pesci e soia sono i più comuni.

La diagnosi è un percorso complesso che richiede una figura specialistica, Allergologo o Pediatra Allergologo, con specifiche competenze nel settore. L’avvio di tale percorso è affidato al Medico di Medicina Generale o al Pediatra di Libera Scelta, che rivestono pertanto un ruolo di primaria importanza nel riconoscimento del paziente da indirizzare verso un iter diagnostico più approfondito. In questo primo approccio la raccolta dell’anamnesi è fondamentale, soprattutto per identificare una correlazione fra l’ingestione dell’alimento e la comparsa dei sintomi.

I successivi step della diagnostica allergologica, a gestione specialistica, possono articolarsi su tre livelli successivi, indicativamente sintetizzati dal flow chart in basso.

E’ bene precisare che diverse variabili, tra cui il tipo di storia clinica, la natura dell’allergene e soprattutto l’età e il profilo del paziente, concorrono alla scelta dell’iter diagnostico più corretto, la cui definizione richiede pertanto una specifica esperienza nel settore.

Solo dopo che è stata effettuata una diagnosi di certezza di allergia alimentare è opportuno escludere dalla dieta uno o più alimenti.

INTOLLERANZE ALIMENTARI

Le intolleranze alimentari provocano sintomi spesso simili a quelli delle allergie, ma non sono dovute a una reazione del sistema immunitario, e variano in relazione alla quantità ingerita dell’alimento non tollerato.

Una dieta scorretta o alterazioni gastrointestinali come sindrome da intestino irritabile, gastrite, reflusso gastroesofageo, diverticolite, calcolosi colecistica determinano una sintomatologia attribuita, spesso erroneamente, all’intolleranza alimentare.

Le intolleranze alimentari non immunomediate sono spesso secondarie quindi ad altre condizioni internistiche la cui ricerca è il vero momento diagnostico: le intolleranze alimentari si suddividono in intolleranze da difetti enzimatici, da sostanze farmacologicamente attive e da meccanismi sconosciuti come le intolleranze da additivi.

L’intolleranza al lattosio, la più diffusa, è causata dalla mancanza di un enzima chiamato Lattasi, che consente la digestione del lattosio, uno zucchero contenuto nel latte, scindendolo in glucosio e galattosio. Interessa circa il 3-5% di tutti i bambini di età inferiore ai 2 anni. Nel periodo dell’allattamento i casi di intolleranza sono quasi sempre secondari a patologie intestinali e si manifestano con diarrea, flatulenza e dolori addominali.

L’intolleranza al lattosio può manifestarsi anche nell’individuo, ed è dovuta principalmente al cambiamento delle abitudini alimentari e alla diminuzione dell’attività lattasica. Non tutti i soggetti con deficit di lattasi avvertono sintomi quando assumono un alimento contenente lattosio, perché esistono diversi gradi di deficit dell’enzima specifico. E’ stato inoltre dimostrato che la presenza e disponibilità della lattasi aumenta in relazione alla quantità di latte consumato: se hai consumato una certa quantità di latte per un periodo di tempo prolungato, il tuo enzima sarà certamente disponibile e ben attivo, dunque difficilmente avrai un’intolleranza al lattosio.

Le intolleranze farmacologiche sono determinate dall’effetto farmacologico di sostanze contenute in alcuni alimenti, quali l’Istamina (vino, spinaci, pomodori, alimenti in scatola, sardine, filetti d’acciuga, formaggi stagionati), la Tiramina (formaggi stagionati, vino, birra, lievito di birra, aringa), la Caffeina, l’Alcool, la Solanina (patate), la Teobromina (tè, cioccolato), la Triptamina (pomodori, prugne), la Feniletilamina (cioccolato), la Serotonina (banane, pomodori).

Mirtilli, albicocche, banane, mele, prugne, patate, piselli, possono contenere sostanze con un’azione simile a quelle dell’acido acetilsalicilico e quindi essere responsabili di reazioni pseudo-allergiche. La loro effettiva importanza clinica è probabilmente sovrastimata.

Le intolleranze da meccanismi non definiti riguardano reazioni avverse provocate da additivi quali nitriti, benzoati, solfiti, per i quali non è stato ancora possibile dimostrare scientificamente un meccanismo immunologico. La loro effettiva importanza clinica va attentamente valutata, con diete di esclusione e reintroduzione, prima della prescrizione di una dieta definitiva di eliminazione.

Le intolleranze alimentari si presentano principalmente con sintomi localizzati all’apparato gastro-intestinale, ma possono coinvolgere anche la cute e più raramente altri apparati.

intolleranze alimentari

Come detto in precedenza, le intolleranze alimentari possono manifestarsi con sintomi in parte sovrapponibili a quelli dell’Allergia; un’attenta anamnesi riveste quindi un ruolo fondamentale nel primo approccio al paziente.

L’esclusione di allergie alimentari è il primo evento diagnostico, cui segue la necessità di valutare se presenti condizioni internistiche che possono essere accompagnate dalle intolleranze alimentari non immunomediate.

Per quanto riguarda le intolleranze da difetti enzimatici e quindi l’intolleranza al Lattosio, la diagnosi si può effettuare facilmente con il Breath Test specifico, che valuta nell’aria espirata i metaboliti non metabolizzati e assorbiti.

La diagnosi di intolleranza farmacologica è essenzialmente anamnestica, mentre per le intolleranze da meccanismi non definiti può essere utile il Test di Provocazione, cioè la somministrazione dell’additivo sospettato (nitriti, benzoati, solfiti ecc).

In sintesi l’iter diagnostico di un paziente con sospetta intolleranza alimentare dovrebbe prevedere un approccio multidisciplinare che coinvolga step by step lo specialista allergologo, gastroenterologo, per escludere patologie gastrointestinali, ed eventualmente dietologico, per la correzione delle abitudini dietetiche.

Gli unici test utili nell’accertamento di una intolleranza sono: · Breath Test per glucosio o lattulosio per valutazione della SIBO (e prima del breath test lattosio), e Breath Test per lattosio per valutare intolleranza a lattosio.

Il famoso test delle intolleranze non è scientificamente valido, perchè non è stato dimostrato da nessuno studio scientifico che si può essere intolleranti ad un alimento!

E perchè allora lo fanno nelle farmacie e nei laboratori di analisi?”

Anche io me lo chiedo, ma la risposta viene da se.

La cosa più importante che mi preme dire però è che non esistono intolleranze verso un alimento, ma solo verso una sostanza. Ad esempio, come abbiamo visto, non esiste l’intolleranza al latte o intolleranza alla pasta o alla carne di vitello.

Esiste tuttavia l’intolleranza a qualche sostanza contenuta in questi alimenti. Per l’appunto, possono essere definite vere intolleranze quella al lattosio, quella al fruttosio, o l’intolleranza al glutine (di cui parlerò in un articolo a parte) . I test per questo tipo di intolleranze si fanno infatti in ospedale e sono specifici.

LE INTOLLERANZE FANNO INGRASSARE?

Risposta secca e incisiva.

Se avessi una vera e propria intolleranza grave, con compromissione dei villi intestinali e conseguente malassorbimento, questo ti porterebbe in realtà a dimagrire, non certo ad ingrassare.

Lo vedremo meglio quando parleremo di celiachia ed intolleranza al glutine.

FONTE: https://www.siaip.it/upload/1985_Documento_Alimentazione_e_stili_di_vita_.pdf

LA DIETA DI MANTENIMENTO

LA DIETA DI MANTENIMENTO

In un percorso che prevede il raggiungimento del peso forma e di una composizione corporea adeguata, la dieta di mantenimento è forse la tappa più importante.

Se però nella teoria, tutti (o quasi) ne riconoscono l’importanza, nella pratica, pochissmi soggetti sono giunti ad iniziare e terminare questo step.

La domanda sorge spontanea: perchè la dieta di mantenimento viene quasi sempre abbandonata prima ancora di iniziarne a vedere gli effetti tangibili?

In questo articolo parleremo della dieta di mantenimento e di quanto sia importante in un percorso di dimagrimento e stabilizzazione del peso.

GLI EFFETTI DELLA DIETA IPOCALORICA

Immaginiamo di aver iniziato un percorso di dimagrimento e di aver perso, dopo un anno di sacrifici, i chili di troppo. Che cosa è successo in questo lasso di tempo al nostro corpo?

Facciamo un esempio pratico, così da capirci meglio.

La signora Pina è in sovrappeso, vuole dimagrire e si reca da un dietista. Dall’anamnesi personale e dietetica e dalle misurazioni corporee, risulta che la signora Pina ha un fabbisogno energetico di 1700 Kcal. Con queste calorie, la signora Pina non ingrasserebbe nè dimagrirebbe, semplicemente il suo peso rimarrebbe stabile.

Se però la signora Pina è in sovrappeso,vuol dire che normalmente mangia più calorie rispetto al suo fabbisogno: c’è quindi la necessità di tagliare un certo numero di calorie per permetterle di perdere il peso in eccesso.

Le viene consegnata una dieta da 1400 Kcal e, nel giro di 1 anno, la nostra signora Pina riesce finalmente a tornare al suo peso forma.

FINE.

La maggior parte dei percorsi di dimagrimento termina proprio in questo preciso momento. Le persone hanno un obiettivo, ci lavorano, si sacrificano, lo desiderano, e in molti lo raggiungono.. e poi? E poi semplicemente credono di aver finito.

Da questi presupposti, deriva il dato più allarmante per quel che riguarda gli effetti delle diete ipocaloriche: più del 70 % dei soggetti che dopo una dieta riescono a perdere peso, lo riacquistano nei successivi 6-12 mesi.

Questo è dovuto al fatto che, una volta raggiunto l’obiettivo, i soggetti tendono a tornare alle abitudini antecedenti alla dieta o, semplicemente, a mangiare di più, senza un percorso di riavvicinamento calorico e di mantenimento e stabilizzazione del peso.

Durante una dieta ipocalorica, vi è un imprescindibile calo del tasso metabolico, e il fattore determinante è la perdita di peso stessa: un corpo più leggero, bruciando meno calorie a riposo, subisce una fisiologica riduzione delle richieste energetiche giornaliere.

Se ci aggiungiamo l’intervento dei famosi adattamenti alla perdita peso, che ci porterebbe a mangiare di più e a muoverci di meno e che dopo un periodo di ipocalorica protratta sono inevitabili, ci rendiamo conto che se la signora Pina si fermasse a questo punto, senza iniziare un percorso di mantenimento, potrebbe mandare in fumo 1 anno di sacrifici e rinunce.

DIETA DI MANTENIMENTO: CHE COS’E’

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Per dieta di mantenimento intendiamo una dieta che ci consenta di introdurre più o meno le calorie di cui necessitiamo per mantenere il peso corporeo.

E’ una sorta di “periodo di transizione” da un’alimentazione restrittiva ad una più “permissiva” rispetto al quantitativo di calorie che può essere assunto giornalmente.

Nella dieta di mantenimento si assume gradualmente un quantitativo calorico maggiore, normocalorico, rispetto a quello precedentemente consumato. Non è, infatti, finalizzata all’ulteriore perdita di peso, bensì permette di mantenere nel tempo l’obiettivo raggiunto.

Così come la perdita di peso deve essere graduale per essere equilibrata ed efficace, allo stesso modo anche il ritorno ad una dieta normocalorica deve avvenire in maniera progressiva, mai drastica.

Questo tipo di regime alimentare non si basa, come la dieta dimagrante, sul controllo delle calorie in modo che ne sia assunto il giusto quantitativo, ma deve portare gli individui ad acquisire un’adeguata istruzione alimentare che abbia come obiettivo ultimo quello di perseguire e mantenere un buono stato di salute.

Non si può stare a dieta tutta la vita, e le regole di un’ipocalorica si discostano enormemente da quella che dovrebbe essere un’alimentazione sana e bilanciata. Quello che il mantenimento deve insegnare è non pensare più alla dieta come ad un regime ristretto, ma come a un’educazione alimentare.

IL MANTENIMENTO MI FARA’ INGRASSARE?

Per rispondere a questa domanda, torniamo un attimo all’esempio della signora Pina.

La sua dieta ipocalorica era di circa 1400 Kcal, mentre il suo fabbisogno stimato era di 1700 Kcal. Con un deficit di 300 Kcal, la signora Pina ha perso peso.

La perdita di peso ha portato con sè tutta una serie di “controindicazioni” metaboliche che, se mal gestite, porterebbero ad un riacquisto rapido e inevitabile del peso corporeo. Tra questi, quelli principali sono:

  • Diminuzione della massa corporea e, come conseguenza, del metabolismo basale
  • Riduzione dei livelli di leptina e insulita, come conseguenza della perdita di massa grassa
  • Riduzione del dispendio energetico, perchè si mangia di meno

Con questi presupposti, il riacquisto del peso perso è dietro l’angolo.

Cosa facciamo adesso?

Impostiamo una dieta di mantenimento che GRADUALMENTE e IN MANIERA INTELLIGENTE riporti la signora Pina alle sue 1700 Kcal, che è un quantitativo che le permetterà di mantenere il peso raggiunto. Gradualmente perchè è essenziale non rompere in maniera brusca i nuovi equilibri a cui il nostro organismo si è adattato. In maniera intelligente perchè bisogna sapere cosa e come aumentare, per evitare spiacevoli riscontri.

Quindi, finchè la signora Pina mangerà le sue 1700 Kcal, non potrà assolutamente ingrassare!

Anzi, vi dirò di più: la dieta di mantenimento servirà proprio a non farvi ingrassare!

Strutturando un programma bilanciato che in maniera graduale vi riporti al vostro fabbisogno, prenderete consapevolezza di quelle che sono le vostre porzioni “non da dieta”, imparerete a reinserire alcuni alimenti eliminati in maniera corretta, e migliorerete il vostro stile di vita in toto.

Tutto questo ha però bisogno di TEMPO. Tempo per arrivare alle calorie di mantenimento, tempo per stabilizzare il peso su quelle calorie, tempo per imparare ad introdurre dei cambiamenti al nostro stile di vita in generale.

Ed è proprio per una questione di TEMPO che la maggior parte delle persone non arrivano mai nemmeno ad iniziare un percorso di mantenimento.

ALLA FINE DELLA FIERA..

Riuscire a dimagrire dopo una dieta non è così difficile: basta seguire le indicazioni che ci vengono fornite in maniera costante. La parte difficile è mantenere quel risultato, perchè presuppone un prolungamento di quello che per alcuni è un percorso che può durare anni.

Quello che bisogna capire è che non c’è ipocalorica senza mantenimento. Le due cose vanno di pari passo. Non si sceglie o l’una o l’altra.

Se la dieta è stata affrontata con il vecchio stato d’animo e non sono state comprese a fondo le ragioni per cui si è cambiata alimentazione, si rischierà di veder crollare dopo pochi mesi tutti i risultati faticosamente raggiunti. Se al contrario la dieta è stata anche l’occasione per stabilire un rapporto diverso con il cibo, il periodo successivo non potrà che suggellare i risultati ottenuti.

L’aspetto più importante del mantenimento, non sta nel cibo, ma nella mentalità con cui lo si affronta. Anche se la dieta è stata vissuta come una “lotta”, una “gara”, un periodo “funzionale a”, il mantenimento deve essere vissuto come un inizio: l’inizio di un nuovo stile di vita alimentare.

Il mantenimento non ha una durata: deve continuare fino a quando le esigenze e le funzioni metaboliche non cambiano nuovamente.
Mentre nella dieta è giusto seguire uno schema rigido imposto “dall’alto”, il mantenimento deve vedere il soggetto farsi parte attiva delle sue scelte.
Se la dieta era un piano diviso giorno per giorno o addirittura ora per ora, il mantenimento deve essere una griglia contenente delle indicazioni volte a rendere il soggetto autonomo ed in grado di auto-gestire la sua alimentazione.

Ultimo, ma non per importanza, il ruolo del mantenimento nell’aiutarci a non dover stare a dieta, probabilmente mai più: se capiremo che per vivere non abbiamo bisogno di esagerare con il cibo e che l’importante non è mangiare ma nutrirci, non avremo bisogno di ripetere faticose diete dimagranti, perché saremo in grado di dare al nostro corpo tutto ciò di cui ha bisogno per stare bene ed in salute. E tutto questo non è l’ipocalorica che ce lo insegna, ma il percorso di mantenimento.