IPERTROFIA MUSCOLARE: PROGRAMMARE L’ ALLENAMENTO

IPERTROFIA MUSCOLARE: PROGRAMMARE L’ ALLENAMENTO

Cos’è l’ipertrofia muscolare?

L’espressione di forza è data da diversi fattori: tra questi, la dimensione del muscolo apporta circa un 30% alla prestazione. L’aumento del volume muscolare è la tanto ricercata e bramata ipertrofia.

Abbiamo visto nell’articolo Ipertrofia: I magnifici tre quali sono le basi teoriche e i meccanismi che sono le fondamenta dello sviluppo ipertrofico. Ora cerchiamo di capire come programmare al meglio un piano di allenamento volto principalmente allo sviluppo ipertrofico.

Come aumentare l’ipertrofia muscolare.

1. Avere un obiettivo per aumentare l’ipertrofia muscolare

Prima di impostare un allenamento, bisognerebbe sempre porsi una domanda: qual è il fine? Focalizzarci su un obiettivo ben preciso da raggiungere può sembrare scontato, ma non lo è affatto.

Mentre in programmazioni per la forza, ad esempio, questo viene sempre fatto, nel mondo dell’allenamento per l’ipertrofia ciò raramente avviene. Quando chiedete una scheda al vostro personal trainer, siate dunque precisi su quello che volete ottenere, altrimenti sarà come fare una lista della spesa di esercizi applicabili su di un soggetto, e in genere, più sono stressanti, più l’allenamento può dirsi efficace. E non è affatto così.

In un contesto ipertrofico, la variabile principale è senza ombra di dubbio il volume d’allenamento. Tuttavia, questo non significa che le schede debbano essere volte a raggiungere un determinato volume, bensì bisogna fissare un obiettivo più preciso.

Ad esempio:

  • in un primo momento potremmo concentrarci sul permettere una maggior sopportazione di alti volumi, e quindi la scheda prevederà un aumento delle serie allenanti di settimana in settimana;
  • potremmo poi puntare allo sviluppo di un feeling con diverse tecniche di intensità o all’ampliamento del ROM (Range of Movement)
  • potremmo puntare ad un aumento del carico su determianti range di ripetizioni o di TUT (Time Under Tension)
  • potremmo ancora impostare una scheda per ritrovare il feeling con la contrazione, dando priorità alla famosa connessione mente-muscolo

Ogni scheda deve quindi avere una logica ben precisa, basata su quello che volete ottenere.

2. Frequenza di allenamento per ipertrofia muscolare

Il Bodybuilding nasce come tutti gli altri sport, in un contesto nel quale il concetto era semplice: più ti alleni, più cresci. Così un tipico protocollo per l’ipertrofia prevedeva 6/7 giorni di allenamento alla settimana ed eventualmente doppia seduta di pesi o cardio all’interno della stessa giornata.

Con l’avvento del doping e la commercializzazione del mondo fitness è arrivata la possibilità di proporre nuove metodologie, come l’Heavy Duty, che si basano sull’andare in palestra “una tantum”, sollevare il più possibile nel minor tempo possibile e tornare a casa a riposarsi per un po’ di giorni. Con gli anni si è però visto che questa impostazione è però tendenzialmente errata, soprattutto per un natural, e questo perchè una delle variabili che più influisce in termini di adattamento è il volume totale.

Il concetto del “più ti alleni, più cresci” è anch’esso un’estremizzazione, che potremmo trasformare in maniera più adeguata in “più riesci ad allenarti progredendo, più cresci”.

Dunque, riuscire ad adattarsi ad un volume di allenamento (grazie ad una sapiente distribuzione delle sedute in più giorni) permetterà un adattamento più efficace.

ANZIANITA’

GRUPPI PICCOLI

GRUPPI GRANDI

1-2

6-10

10-16

3-5

10-16

16-20

6-8

15-25

25-35

>8

30-40

35-40

In alto, un’idea di intervallo settimanale di serie per gruppi in base all’anzianità di allenamento. Ovviamente i set sono indicativi, ma rendono l’idea di come all’aumentare dell’esperienza debba aumentare lo stimolo, e questo per indurre dei cambiamenti nel tempo, pena il classico “blocco” dei risultati che in genere si verifica dopo 2-3 anni.

3. Ipertrofia : MULTIFREQUENZA vs MONOFREQUENZA?

Per monofrequenza intendiamo l’allenamento di ogni gruppo muscolare una sola volta all’interno del microciclo (di solito la settimana), mentre per multifrequenza si intende l’allenamento più di una volta a settimana, in genere 2-3.

Se, riprendendo i discorsi precedenti, teniamo conto del volume allenante come variabile più influente sugli adattamenti muscolari e che per volume dobbiamo per forza intendere un volume efficiente, vien da se’ che allenare un gruppo muscolare più di una volta a settimana è la scelta migliore.

Peraltro, la riposta di adattamento è tendenzialmente rapida: mentre il lattato e le scorte di energetiche vengono recuperate in poco tempo, altri fattori, come i danni muscolari, impiegano circa 48-72 ore, e quindi stressare un muscolo 2 volte a settimana non ostacola di certo tali progressi. Anzi, avremo semmai un grande vantaggio: il muscolo, venendo stimolato, e quindi irrorato, più frequentemente e in maniera uniforme, sul medio/lungo periodo manterrà uno stato sano ed anabolico e, di conseguenza, permetterà di sovracompensare meglio.

Qual è la strategia migliore per l’incremento dell’ipertrofia muscolare?

Un’ottima strategia per impostare un buon allenamento in monofrequenza è quella di variare gli angoli di lavoro: prendendo come esempio il dorso, potremmo concentrarci in una seduta sui rematori ( pulley, rematori vari etc.) e nell’altra sulle trazioni (lat machine, pulldown etc.).

Un altro parametro su cui poter lavorare è il ROM: in una prima seduta concentrarsi su lavori in massimo stretch del muscolo, nell’altra seduta sui lavori in cui il muscolo raggiunge la massima contrazione ( dando focus su quel punto).

Oppure potremmo variare la seduta in base all’ordine dei gruppi muscolari e al volume, dando un giorno la priorità ad un uno e un giorno all’altro: per esempio, lunedì petto-spalle e giovedì spalle-petto, con volumi maggiori, entrambi i giorni, sul primo gruppo allenato.

Insomma il concetto è semplice: variare, dando logica al tutto, e cambiare gli stimoli.

4. Ipertrofia: FULL BODY vs BRO-SPLIT?

Il grande vantaggio dell’allenamento il full body è che permette la massima sinergia muscolare: nessun gruppo viene viene escluso all’interno della seduta, possiamo lavorare per catene cinetiche o con esercizi complessi, e possiamo variare maggiormente le sedute all’interno della settimana. Non da poco, lo stimolo allenante sarà maggiore e, col tempo, questo permetterà al soggetto di adattarsi a sopportare maggiormente la mole di lavoro. Lo svantaggio è che lavorare tutto il corpo è estremamente faticoso, e nel tempo risentiremo parecchio dell’affaticamento progressivo.

Vien da sè che il vantaggio di suddividere i gruppi muscolari all’interno della settimana è quello di poter effettuare lavori più precisi ed efficaci.

Entrambi risultano efficaci in termini di ipertrofia, e gli studi lo dimostrano, quindi la scelta dipende essenzialmente da voi: se hai del tempo da dedicare all’allenamento, conviene allenarti per più giorni e suddividere i vari gruppi muscolari all’interno delle sedute, con le classiche bro-split che tutti conosciamo ; se invece hai poco tempo, il fullbody è quello che fa per te.

Come in ogni contesto, la personalizzazione è la chiave. Non esiste una formula magica. Ovviamente ci sono alcune cose che funzionano meglio di altre, ma in un contesto di pianificazione, basarsi su ciò che dice la letteratura scientifica e adattarla al caso specifico, tenendo conto di obiettivi e necessità, è sicuramente la scelta migliore.

Il Personal Trainer adatterà ciò che è oggettivamente e scientificamente valido al singolo soggetto, ed è per questo motivo che nemmeno in questo caso esiste una verità assoluta.

Voglia di allenarsi, di migliorarsi e di andare oltre i propri limiti sono gli elementi essenziali in ogni contesto. Costruire un programma di allenamento, se le basi sopra citate sono solide, è un gioco da ragazzi.

Fonte: Project Strength

CONSAPEVOLEZZA: UNA SCINTILLA PER IL CAMBIAMENTO

CONSAPEVOLEZZA: UNA SCINTILLA PER IL CAMBIAMENTO

Nell’articolo di oggi voglio approfondire il tema della consapevolezza come punto chiave in un processo di cambiamento.

Cosa significa consapevolezza? Letteralmente, cognizione, presa di coscienza.

La consapevolezza è una condizione in cui la cognizione di qualcosa si fa interiore, profonda, perfettamente armonizzata col resto della persona, in un uno coerente. 

Diventare consapevoli di quanto accaduto, di come siamo cambiati, di quale futuro ci sta davanti è un passo fondamentale nella direzione giusta. Chi è consapevole non subisce, ma può affrontare e rielaborare.

Ma c’è di più. Consapevolezze condivise rendono possibile un agire comune. Per chi evita o non riesce ad affrontare un percorso di consapevolezza, il terremoto rischia di trasformarsi in un passato che non passa.

Vi faccio un esempio pratico per spiegare meglio cosa intendo.

Capita spesso che alcuni pazienti, venendo al controllo mensile, arrivano scoraggiati portando, a loro dire, alcun “successo”: il peso non scende e non riescono a capirne il motivo.

Analizzando insieme la loro giornata, provo a capire quali sono i punti critici o quel qualcosa che ci sta sfuggendo: in questo lavoro, la parte psicologica è estremamente importante, e trovo essenziale dialogare e cercare di non fermarmi alle fredde apparenze, al semplice “forse questa dieta non è adatta a me.”

La maggior parte delle volte, riesco a tirar fuori la famigerata “confessione”, intrisa di senso di colpa, e quello che mi arriva di solito è una profonda presa di coscienza di quei comportamenti e pensieri che non permettono alle persone in questione di raggiungere i risultati voluti.

Quando capitano queste cose mi sento molto onorata: non è facile aprirsi davanti a un’altra persona, tanto meno se questa ha il camice bianco (sottolineo che io non lo porto, ma è per rendere meglio il concetto!  ): ci si sente giudicati negativamente, non si può scappare e si è costretti a fare i conti con cose che non ci va di affrontare.

Quindi sono molto grata quando riesco nel mio intento di far esprimere ogni pensiero al mio paziente, indipendentemente dal mezzo con cui lo fa.

Andare da un nutrizionista non è mai solo questione di cibo, e “i grassi” non sono persone pigre senza forza di volontà: se pensassi questo avrei già cambiato mestiere da molto tempo!

Ho visto persone francamente obese raggiungere eccellenti risultati nel lavoro, terminare dolorosamente relazioni importanti, smettere di fumare…tutti processi che implicano parecchia forza di volontà.

C’è molto di più dietro, e molto spesso ha a che fare con il non sentirsi, il non avere coscienza di sè.

Vedo quotidianamente persone obese che sostengono di mangiare pochissimo: ovviamente a volte è il risultato del timore di venire giudicati, ma altrettanto spesso, approfondendo un po’ l’argomento, mi accorgo che queste persone non sono assolutamente consapevoli di quello che mangiano, sia in termini di quantità che di energia

Lo stesso discorso vale per gli incrementi di peso: ”dr.ssa ho preso 15 kg senza accorgermene”. Come è possibile non rendersi conto di aumentare 15 kg DURANTE il processo?

È possibile se non siamo abituati a sentire noi stessi.

Per cambiare qualcosa dobbiamo prima ACCETTARLO: accettare non significa condividere o che ci faccia piacere, ma prendere atto che quella cosa esiste.

Solo se accetto il mio sovrappeso (ossia ne prendo consapevolezza), posso cambiarlo. Ciò può non essere facile né automatico e alcune discipline ci possono venire in auto: lo yoga, la meditazione, la mindfulness o anche un semplice hobby che ci assorba totalmente (alla fine meditare è stare con sé stessi in modo autentico e profondo, e non è indispensabile essere asceti indiani per praticarlo, si può benissimo fare anche mentre si fa modellismo, ad esempio!)

La consapevolezza non è innata, quindi tutti abbiamo la possibilità di prendere coscienza di quello che siamo. Tutti possiamo trovare la nostra SCINTILLA, la nostra spinta al cambiamento. Abbattiamo i muri che ci siamo costruiti, prendiamo atto della nostra condizione e facciamo qualcosa per cambiarla.

Un altro tema importante, che riguarda in maniera più selettiva il seguire un piano alimentare, è la libertà:

finchè vedrò una dieta come uno schema rigido di privazioni e dolori non potrà mai funzionare.

Solo partendo dal responsabilizzarmi, ossia dal capire che io stesso, in piena autonomia, ho deciso di rivolgermi a un professionista e che ho la piena libertà di mangiare quello che voglio MA scelgo di consumare determinati alimenti, posso liberarmi da una prigione auto-imposta.

Questo concetto a prima vista può sembrare un sofisma, ma in realtà è un punto cruciale da capire se vogliamo vivere un percorso (di dimagrimento, terapeutico, di crescita personale) con gioia piuttosto che subirlo.

Prendendo consapevolezza del fatto che posso mangiare quello che voglio ma scelgo di mangiare un determinato cibo o consumare un certo pasto, prendo la respons-abilità (la capacità di rispondere adeguatamente) di quel percorso.

Focalizzandomi poi sugli aspetti positivi del percorso posso amplificare la possibilità di riuscire ad ottenere i risultati che voglio:

  • Faccio qualcosa per me stesso
  • Ho ben fisso l’obiettivo (meglio se con piccoli obiettivi intermedi)
  • Digerisco meglio e non ho più il reflusso
  • Non ho più il fiatone
  • Dormo meglio e mi sento più energico

SONO RINFORZI POSITIVI molto più efficaci rispetto a

  • Non potrò mai più mangiare…. (inserire cibo preferito)
  • Perché devo stare a dieta?? Alla fine non ho fatto del male a nessuno
  • Che vita è non poter uscire a cena 3 volte a settimana e mangiare sushi all you can eat??
  • Non ho tempo per fare attività fisica (dove per attività fisica si intende anche qualche passeggiata o parcheggiare più lontano e fare commissioni a piedi)

Abbattete i muri che vi siete costruiti, prendete coscienza di chi siete e iniziate a combattere per chi volete diventare. La scintilla è lì vicino a voi. Sgranate gli occhi, scrollatevi di dosso le paure e vi assicuro che la troverete, proprio davanti a voi, pronta ad indicarvi la vostra via d’uscita.

BRO-SCIENCE

BRO-SCIENCE

“BROSCIENCE, BROSCIENCE EVERYWHERE”

Bella BRO, tu si che capisci di palestra, con quel pettorale!!! Non come quello sfigato che ha studiato!!!

“L’apparenza inganna” , “L’abito non fa il monaco”

Tutti modi di dire che, purtroppo, in ambito Fitness non hanno insegnato nulla, anzi è sempre più comune affidarsi ai “consigli” del cosiddetto Maschio Alfa della palestra piuttosto che ad un PT certificato, che magari non ha il famigerato six pack.

Perché?

“Bhè, se davvero è così bravo perché non lo fa su di lui?”… Classica risposta da BRO!

Ma andiamo con ordine.

Come primo passo proviamo a dare una definizione al termine BROSCIENCE.

Letteralmente è “La scienza del BRO”. In pratica si sta parlando di tutti quegli aneddoti o consigli presentati come fatti, ma senza basi scientifiche. In ambito Body Building è associato a persone muscolose che impartiscono tattiche non provate e non vere sull’allenamento e sull’alimentazione a persone che aspirano a migliorare la propria composizione corporea e che hanno la falsa ipotesi che la loro esperienza significhi che hanno conoscenza.

Oggi, grazie ad internet le informazioni sono alla portata di tutti. Chiunque abbia un minimo di voglia può leggere un articolo scientifico e trarne qualsivoglia conclusione, oppure può frequentare blog e community che permettono di condividere ed ampliare le proprie conoscenze, però a volte è più comodo/semplice fidarsi del BRO, che ci fa capire perché non cresciamo e ci consiglia qualcosina da assumere per aiutarci. La teoria del “TUTTO e SUBITO” è deleteria, lo è sempre stata e sempre lo sarà.

Ancora peggio è quando il BRO è laureato o qualificato, lì la BROSCIENCE diventa difficilissima da debellare!!!

Lo scopo di questa rubrica sarà quello di portarvi qualche prova scientifica del perché la BROSCIENCE è una (come direbbe Fantozzi) CAGATA PAZZESCA!!

Breve esempio di BROSCIENCE è la famigerata ricerca dell’Ipertrofia.

Come ormai noto, esistono due tipi di ipertrofia: Ipertrofia miofibrillare e Ipertrofia sarcoplasmatica, la prima è data dall’aumento della componente contrattile del muscolo, mentre la seconda riguarda l’aumento del sarcoplasma e della cellula muscolare (componente acquosa).

Bene puntualmente in palestra iniziano a circolare metodologie di allenamento mirata ad una o all’altra tipologia, quindi si iniziano a vedere mezze rep fatte con pesi da strongman o serie infinite di rep effettuate con micro carichi.

La questione è che non è possibile decidere e verificare a quale delle due tipologie di ipertrofia vogliamo ambire, semplicemente perché non è possibile verificare né l’incremento di miofibrille pre e post allenamento né  l’aumento di sarcoplasma!! Fondamentale è capire che se un soggetto si allena e diventa grosso è perché ha rispettato tutti i criteri fisiologici, metabolici ed ormonali che portano all’ipertrofia e che sono stati ben esplicato nell’articolo: IPERTROFIA: I MAGNIFICI TRE che ti invito a leggere.

Fatto l’esempio, ho ora l’onore di presentarvi la nuova rubrica del Blog di VR FeatNESS!!!

(…Rullo di Tamburi…)

Ladies and Gentleman please welcome on your devices our Monday’s Topic:

THE BROSCIENCE!!!!

Ogni lunedì proveremo a sfatare un mito da sala pesi!!

Ovviamente è aperto a tutti e quindi se hai un minimo dubbio che il tuo BRO stia diffondendo un argomento della BROSCIENCE, non esitare a contattarci per chiedere una rapida verifica!!

PORTION SIZE: UNA DELLE CAUSE DELL’OBESITA’?

PORTION SIZE: UNA DELLE CAUSE DELL’OBESITA’?

COS’E’ IL PORTION SIZE?

Vi sono prove considerevoli che la porzione e le dimensioni degli imballaggi di molti alimenti siano aumentate negli ultimi 30 anni, e con esse è cresciuta anche la preoccupazione che questo possa essere un fattore contribuente all’aumento dell’obesità.

Quando si considera il controllo dell’apporto energetico e la possibilità di sviluppo dell’obesità, ad oggi l’attenzione è stata in gran parte rivolta agli eventi fisiologici e biologici che si verificano verso la fine di un pasto, quelli che bloccano l’assunzione di cibo. L’approccio fisiologico ha trovato dei meccanismi post-ingestivi a livello molecolare e cellulare che associano l’accumulo di grasso ai cambiamenti nel comportamento alimentare. Tuttavia, l’assunzione di cibo è spesso controllata più da segnali esterni che interni. Tale comportamento si manifesta senza consapevolezza e la quantità consumata è influenzata da fattori quali la dimensione della porzione, la visibilità del cibo e la facilità con cui può essere ottenuto. Brunstrom (2011) ha osservato che l’assunzione di energia dipende in larga misura dalle dimensioni del pasto, qualcosa che viene determinato prima di iniziare a mangiare.

Anche se è oggettivamente accettato che i fattori ambientali siano quelli prevalentemente importanti, la nostra comprensione di uno di questi, le dimensioni delle porzioni, è inferiore a quanto si crede.

Cosa possiamo dire con certezza sull’influenza delle dimensioni della porzione sull’assunzione di energia? Quali ulteriori informazioni dobbiamo stabilire? Scopriamolo insieme!

Aumento delle dimensioni delle porzioni?

La “dimensione della porzione” è, fondamentalmente, la quantità di cibo che viene posizionata sul piatto, che riflette la scelta individuale o del ristorante o del produttore di alimenti.

Una cosa che può sembrare non controversa è che la dimensione dei pasti è aumentata nel corso degli anni. Wansink e Wansink (2010) hanno valutato 52 dipinti rappresentanti “l’Ultima Cena”, e hanno sorprendentemente scoperto che nel tempo le dimensioni del pasto erano aumentate progressivamente. La dimensione dei pasti principali era cresciuta del 69% tra il 1000 e il 1700, mentre la quantità di pane era aumentata del 23%. Non vi è alcuna ragione religiosa per questo cambiamento, quindi è probabile che rifletta le percezioni popolari delle dimensioni dei pasti nelle diverse fasi della storia.

Aumento delle dimensioni delle porzioni

Tuttavia, sebbene un aumento delle dimensioni della porzione possa aver avuto luogo per centinaia di anni, cresce la preoccupazione che più recentemente il fenomeno abbia avuto un’accelerazione.

Nielsen e Popkin (2003) hanno confrontato le indagini sul consumo di cibo negli Stati Uniti, prestando attenzione a quegli alimenti che erano stati responsabili del maggior aumento dell’apporto energetico: snack salati, dessert, bevande analcoliche, bevande alla frutta, patatine fritte, hamburger, cheeseburger, pizza e cibo messicano. Questo elenco di alimenti rappresentava il 18% delle calorie consumate nel 1977-1978, ma il 27,7% nel 1994-1996. Le dimensioni della porzione erano quindi aumentate per tutti questi prodotti alimentari.

Allo stesso modo, Young e Nestlé (2002), prendendo in considerazione cibi pronti, hanno scoperto che le dimensioni delle porzioni avevano iniziato ad aumentare negli anni ’70 e stavano ancora aumentando nella misura in cui la maggior parte delle porzioni superava le porzioni raccomandate dal governo. Ad esempio, un muffin tipico negli Stati Uniti è del 333% maggiore rispetto alla raccomandazione USDA e una porzione di pasta del 480% più grande.

Tra il 1977 e il 1991 c’è stato un aumento del 75% del numero di ristoranti negli Stati Uniti (US Bureau of the Census, 1984, 1995). In particolare, è risaputo che i fast food offrono pasti economici in grandi quantità (Harnack et al., 2000). Forse non sorprende che ci siano rapporti secondo cui la frequenza di mangiare nei fast-food è associata a una maggiore assunzione di energia e grassi e un indice di massa corporea (BMI) più elevato (McCrory et al., 1999).

Sebbene gran parte delle prove provenga dagli Stati Uniti, un sondaggio olandese ha riscontrato una tendenza verso porzioni più grandi e l’introduzione di multipack (Steenhuis et al., 2010). Tuttavia, in Francia uno studio sui libri di cucina ha scoperto che le porzioni suggerite erano inferiori del 25% rispetto agli Stati Uniti (Rozin et al., 2003). In effetti, le dimensioni delle porzioni francesi erano più piccole nei ristoranti, nei supermercati e nei ristoranti “all you can eat”.

Pertanto, sebbene vi sia stata una tendenza all’aumento delle dimensioni delle porzioni di vari alimenti, non è uniforme in tutti i Paesi del mondo. Tuttavia, data la crescente epidemia dell’obesità anche sopratutto infantile, resta la preoccupazione che il sovradimensionamento delle porzioni di cibo abbia cambiato la nostra percezione della quantità che è invece normale mangiare.

Risposte a breve termine alla dimensione della porzione

In letteratura vi sono centinaia di studi che hanno prodotto risultati ragionevolmente coerenti: il consumo di cibo aumenta quando la dimensione della porzione è maggiore. Tali scoperte sono la base del concetto secondo cui un aumento delle dimensioni della porzione gioca un ruolo nell’aumentata incidenza dell’obesità.

Tuttavia, sebbene coerenti con tale opinione, tali dati devono essere sottoposti a un attento esame. Tali studi considerano isolatamente un aspetto dell’ambiente, ossia la dimensione della porzione. Il disegno sperimentale utilizzato ha spesso enfatizzato l’importanza della dimensione della porzione rimuovendo le altre informazioni che utilizziamo in tali situazioni. Pertanto, il ruolo della dimensione della porzione può essere esagerato. Tuttavia, sebbene importante in un paradigma di laboratorio, è necessario stabilire l’importanza relativa di un tale fenomeno se collocato in un contesto sociale più ampio.

  • L’effetto è simile con tutti gli alimenti?
  • L’aumento del consumo di un livello elevato di un particolare macronutriente ha un effetto differenziale nel tempo?
  • In che misura l’età, il contesto sociale, il contesto sociale del mangiare, l’obesità o il consumo limitato influenzano la risposta alla dimensione della porzione?

Non possiamo semplicemente concludere che la dimensione della porzione è una variabile universalmente importante senza uno studio sistematico. Non può essere semplicemente assunto il principio “causa-effetto” senza tener conto di altri fattori.

Gli esperimenti sulla correlazione tra aumento delle porzioni ed obesità

Vi riporto due esperimenti molto interessanti, che spiegano i “bias” che in alcuni studi non sono stati considerati ma che, come vedremo, giocano un ruolo fondamentale a livello mentale.

Geier et al. (2006) collocarono delle caramelle gommose in ciotole in un’area pubblica di un ufficio. A giorni alterni venivano collocate di piccole (3 g) o grandi dimensioni (12 g). Pertanto, il peso degli snack disponibili era costante, ma le dimensioni dell’unità variavano. Allo stesso modo, in un condominio, in alcuni giorni erano stati offerti pretzel di dimensioni normali in una ciotola, e in altri giorni i pretzel erano presentati in modo simile ma erano stati tagliati in due. In entrambi i casi, offrendo prodotti più piccoli, questo ha dimezzato la quantità consumata. C’era quindi un pregiudizio cognitivo secondo il quale era opportuno consumare un determinato numero di prodotti alimentari, indipendentemente dalle loro dimensioni. Allo stesso modo Geier et al. (2006) hanno suggerito che esiste un “pregiudizio unitario”: cioè c’è un numero percepito come “giusto” da mangiare quando presentato in una forma particolare. Quando i pretzel venivano presentati a metà delle dimensioni normali, anche se era disponibile esattamente la stessa dimensione complessiva e non c’erano conseguenze economiche associate al consumo maggiore, ne veniva comunque consumato meno.

È facile intuire che tale “distorsione dell’unità” incoraggerà un consumo maggiore quando vengono presentate unità di dimensioni maggiori. Tali dati suggeriscono che oltre all’utilizzo di porzioni più piccole, unità di dimensioni più piccole possono aiutare a controllare i consumi. La percezione della quantità appropriata da mangiare determinerà la quantità servita. È evidente che la dimensione della porzione non deve essere considerata in maniera esclusiva, in quanto a volte la dimensione dell’unità, quando la dimensione della porzione è rimasta costante, si è rivelata influente.

La “sazietà attesa”

Brunstrom e Rogers (2009) hanno esaminato l’assunto comune che è l’appetibilità del cibo che determina la dimensione della porzione scelta con conseguenze sull’aumento di peso e sull’obesità. Hanno considerato il ruolo relativo di appetibilità e “sazietà attesa” nella capacità di evitare la sensazione di fame. Quando sono stati esaminati 17 alimenti comunemente consumati a pranzo, si è scoperto che sia la soddisfazione del prodotto alimentare, sia le dimensioni delle porzioni in termini di chilocalorie, erano entrambe strettamente associate alla sazietà attesa. Gli alimenti che non avrebbero dovuto provocare sazietà prolungata sono stati scelti in porzioni più grandi. È importante sottolineare che gli alimenti che dovrebbero produrre un livello più basso di sazietà tendevano a essere più densi energicamente. Hanno concluso che i loro risultati hanno messo in dubbio il ruolo dell’appetibilità nella scelta delle dimensioni di un pasto; al contrario, la “sazietà attesa” ha svolto un ruolo importante.

Si è altresì riscontrato che c’era un’alta correlazione tra la familiarità con un alimento e la sazietà attesa, suggerendo che la relazione è appresa nel tempo: la sazietà attesa aumenta man mano che il cibo diventa più familiare.

Tali risultati mostrano che le predisposizioni e le conoscenze sul cibo, prima ancora del suo consumo, sono importanti nella nostra scelta della dimensione della porzione, e questo riflette l’apprendimento e l’adattamento. Risulta quindi importante considerare ulteriormente i fattori psicologici che determinano la dimensione della porzione scelta.

Compensazione energetica?

Sebbene da studi di laboratorio vi siano prove considerevoli che l’aumento delle dimensioni della porzione aumenti il ​​consumo di molti alimenti, non sarebbe saggio generalizzare acriticamente da tali dati alla vita di tutti i giorni.I dati mancano infatti della maggior parte delle informazioni contestuali rilevanti che normalmente influenzano cosa e quando mangiamo. Anche se esisteva una risposta simile nelle situazioni del mondo reale, dobbiamo sapere se si tratta di una risposta che continua nel tempo o se l’adattamento avviene attraverso cambiamenti negli altri aspetti della dieta. Essenzialmente, dopo aver consumato un pasto più ampio, l’apporto energetico diminuisce nei pasti successivi? Questa è una domanda importante poiché la risposta determina l’attenzione che dovrebbe essere diretta alla dimensione della porzione. Se hai mangiato di più per un pasto, mangi di meno durante il pasto successivo, quindi l’importanza della dimensione della porzione è notevolmente ridotta. Un effetto transitorio ha scarso significato pratico.

Rolls et al. (2006) hanno offerto per due giorni ad soggetti adulti i pasti principali in condizioni controllate, e ha fornito spuntini tra i pasti. In tre diverse occasioni è stato fornito lo stesso menu con il 100, 150 o 200% degli importi di base forniti. Aumentando le dimensioni delle porzioni del 50% si è consumato il 16% in più di energia, e quando le dimensioni erano maggiori del 100% l’assunzione di energia è aumentata del 26%. Tutti gli aspetti dei pasti, compresa l’assunzione di snack, sono aumentati quando ne sono stati disponibili altri.

Ci sono vari motivi per essere cauti nell’interpretare questo studio. I pasti venivano consumati tutti in orari prestabiliti, in cabine private in un laboratorio, in modo tale che l’effetto della dimensione della porzione fosse massimizzato e altri fattori diminuiti. Non c’era scelta su quando o se si era mangiato o sulla natura del pasto. È ovvio che la compensazione energetica è molto probabile quando si decide se e quando si desidera mangiare ed è più probabile che si verifichi quando viene fornita una scelta di alimenti che differisce nella densità energetica. Infine, uno studio di due giorni potrebbe non essere sufficiente per consentire ai meccanismi controregolatori di esprimersi (de Castro, 1996).

Uno studio successivo dello stesso gruppo, tuttavia, ha esaminato l’impatto di porzioni più grandi per 11 giorni, riferendo nuovamente che l’aumento dell’apporto energetico non è stato compensato da un apporto inferiore in un secondo momento (Rolls et al., 2007b). Ancora una volta, tutti i cibi e le bevande erano stati forniti per due periodi di 11 giorni, quando sono stati forniti il ​​100% o il 150% delle porzioni di tutti gli articoli, con conseguente aumento dell’assunzione giornaliera di 423 kcal. In questo caso i partecipanti hanno ricevuto tutti i pasti, sebbene solo in nove giorni il pasto principale sia stato consumato in laboratorio. Le porzioni più grandi hanno comportato un aumento dell’assunzione della maggior parte degli alimenti, compresi gli spuntini. Sebbene gli autori abbiano affermato che la continua risposta a porzioni più grandi non supportava l’idea che i sistemi biologici alla fine regolassero l’assunzione di energia, i commenti diretti allo studio iniziale di due giorni si applicano ugualmente. La fornitura di pasti della stessa densità energetica con l’istruzione di consumare tre pasti al giorno limita l’opportunità per i meccanismi fisiologici di esercitare un’influenza.

Più in generale Levitsky et al. (2005) hanno considerato la risposta corporea di adulti in normopeso all’eccesso di cibo. Per 13 giorni, ogni soggetto ha consumato il 35% di energia in più rispetto al basale, con un conseguente aumento di peso di 2,3 kg. Quando sono tornati alla loro dieta normale, sebbene l’assunzione di energia fosse simile ai valori basali, i soggetti hanno perso 1,3 kg di peso corporeo. Sembra che la quantità consumata non sia il solo fattore determinante del peso corporeo e indica la necessità di monitorare più dell’apporto energetico quando si considera qualsiasi risposta alle variazioni delle dimensioni della porzione.

L’osservazione generale che, sebbene di tanto in tanto vi siano grandi variazioni nell’assunzione di energia, il peso corporeo degli adulti rimane notevolmente costante, suggerisce che il peso deve essere regolato da meccanismi biologici. Tali osservazioni illustrano la necessità di studiare la risposta alle variazioni delle dimensioni della porzione per un lungo periodo e richiedono più di un semplice calcolo dell’energia consumata.

Un fattore che non è stato preso in considerazione è la natura del pasto. Ci sono fondate ragioni per suggerire che la composizione in termini di macronutrienti della dimensione della porzione può essere influente. Holt et al. (1995) hanno esaminato la capacità di una gamma di alimenti di indurre sazietà per un periodo di 2 ore. La sazietà maggiore era prodotta da patate lesse, quella minore da un cornetto. Il livello di proteine, fibre e acqua era correlato positivamente con la sazietà risultante, mentre il contenuto di grassi era associato negativamente. Nel contesto della dimensione delle porzioni, tali dati porterebbero alla previsione che il consumo di alimenti ricchi di grassi tenderebbe a non portare ad una riduzione dell’apporto energetico, mentre altri macronutrienti potrebbero ridurre l’assunzione successiva.

Si pone pertanto la questione se la risposta ad un aumento delle dimensioni della porzione dipenda dalla composizione macronutriente del pasto. Inoltre, è necessario un esame dell’impatto a lungo termine del cambiamento delle dimensioni della porzione sull’assunzione di energia e sul peso corporeo. Semplicemente queste domande sono state poco considerate.

Considerazioni finali

Vi sono prove crescenti che l’appetito e l’equilibrio energetico siano controllati da una complessa rete di meccanismi fisiologici che coinvolgono cervello, intestino e tessuti. Tuttavia, la complessità e la natura poliedrica della biologia associata all’ingestione di cibo e la capacità del corpo di adattarsi, hanno reso l’approccio biologico alla manipolazione dell’apporto calorico meno efficace di quanto si sperasse. Un altro approccio più controverso è quello di vedere l’epidemia di obesità come “una normale risposta fisiologica a un ambiente cambiato, non nella patologia del sistema regolatorio” (Zheng et al., 2009). È ciò che viene posizionato sul piatto prima che qualcosa venga consumato che è importante, dopo di che i meccanismi biologici sottostanti fanno ciò per cui sono stati progettati. Ciò che è cambiato è l’ambiente in cui viviamo, sebbene una tale prospettiva debba riconoscere che l’obesità non è inevitabile in quanto non tutte le fasce della società diventano obese.

Pertanto, la prospettiva alternativa è che l’assunzione di cibo sia controllata più da segnali esterni che interni: dovremmo mirare a modificare l’ambiente e il nostro stile di vita.

Herman e Polivy (2005) hanno sostenuto che, sebbene la fame e la sazietà siano state tradizionalmente esaminate quando si cerca di capire quanto mangiamo, in realtà svolgono un ruolo marginale. Piuttosto, nei paesi industrializzati, il cibo è controllato dal desiderio di evitare un eccesso di cibo in modo tale da limitarne l’assunzione, sebbene spesso non riusciamo a raggiungere gli obiettivi che ci prefiggiamo. Abbiamo regole che precedono il pasto su quanto dovremmo mangiare in circostanze particolari. Tuttavia, la porzione offerta in un ristorante, o venduta nel negozio, tende ad essere vista come un’indicazione autorevole di quanto dovrebbe essere consumato. Esistono, tuttavia, dei limiti, e se la porzione è chiaramente troppo grande o troppo piccola, può essere modificata lasciandone parte nel piatto o prendendo un’altra porzione. Non vi è, tuttavia, alcun dubbio sul fatto che esiste una gamma abbastanza ampia sulla quale siamo pronti a vedere una porzione accettabile, sebbene l’attenzione sia stata rivolta a un particolare problema normativo, “distorsione della porzione”, che è la tendenza a vedere un porzione più grande come normale e desiderabile. Schwartz e Byrd-Bredbenner (2006) hanno stabilito le porzioni di vari alimenti selezionati da giovani adulti e hanno scoperto che erano significativamente più grandi di quanto non fossero stati 20 anni prima. L’incapacità di riconoscere una dimensione della porzione appropriata è un evidente ostacolo al controllo dell’assunzione di cibo, è necessario stabilire quei fattori che influenzano lo sviluppo di queste norme. La “distorsione delle porzioni” sarà difficile da affrontare poiché l’assunzione appropriata differirà da persona a persona in modo tale che non possa essere offerto alcun consiglio universale.

L’obiettivo più importante sarebbe quello di stabilire l’importanza della dimensione della porzione rispetto ad altre variabili che influenzano l’assunzione di cibo. È necessario stabilire che la variazione della dimensione della porzione non porta a cambiamenti compensativi a livello psicologico o fisiologico. Sebbene le dimensioni delle porzioni di molti prodotti alimentari siano aumentate e gli studi di laboratorio hanno scoperto che si mangia di più quando viene offerto di più, ciò non stabilisce l’importanza reale del fenomeno. Sebbene per molti questo rapporto appaia molto probabile, va ricordato che l’associazione non è stata dimostrata. Vi è una urgente necessità di studi di intervento che dimostrino che cambiare le dimensioni delle porzioni riduce il peso in coloro che consumano una dieta scelta liberamente, piuttosto che in quelli in una situazione di laboratorio che prescrive o limita la natura del consumo. Senza tali dati, non possiamo essere sicuri che la risposta alla dimensione della porzione sia più di un fenomeno di laboratorio di significato pratico limitato.

Anche la microstruttura dei pasti deve essere considerata. Ad esempio, mangiare un piccolo primo piatto aumenta la probabilità di mangiare un ricco dessert? Qual è l’effetto netto? Con cibi particolari e con particolari tipi di individuo, fino a che punto una piccola porzione porta all’assunzione di una seconda porzione? È improbabile che tutti rispondano in modo simile a una determinata dimensione della porzione: dipenderà ad esempio dal genere, dal peso, e dal livello di attività esistenti dell’individuo. Pertanto, non è probabile che vi sia una dimensione della porzione ideale; una taglia non va bene per tutti.

Tuttavia, si spera che possa essere dimostrata una relazione tra dimensione della porzione e obesità, in quanto tale associazione offrirà i mezzi per intervenire per ridurre l’assunzione di energia. In tal caso, sarà necessario rispondere a una serie di domande.

È probabile che l’influenza della dimensione della porzione dipenderà dall’interazione tra molte variabili: pertanto la ricerca futura dovrebbe considerare la dimensione della porzione in una gamma più ampia di situazioni per stabilire la generalità della sua influenza. Tali variabili includeranno almeno la situazione sociale, l’imballaggio, la pubblicità, l’etichettatura, il tipo di cibo e gli atteggiamenti, la conoscenza e la motivazione dell’individuo. Invece di aspettarsi una reazione generale alla dimensione della porzione, è probabile che qualsiasi risposta interagisca con molti fattori. La notevole attenzione che è stata data alla dimensione della porzione non dovrebbe tradursi nella sua importanza assunta.

Se l’approccio deve avere un impatto, una domanda importante che deve essere affrontata è come possiamo generare cambiamenti diffusi nella dimensione della porzione? È forse irragionevole aspettarsi che un’organizzazione commerciale agisca in modo indipendente quando ciò potrebbe non essere nei loro interessi finanziari. Non ci possono essere alternative alle iniziative del governo volte a generare cambiamenti universali, sebbene tale sia la diversità delle industrie alimentari e della ristorazione che ciò solleverà sostanziali problemi pratici, commerciali e politici.

Dovrebbero essere stabiliti i fattori che portano alla “distorsione della porzione”. Cosa induce le persone a vedere una grande quantità di cibo come appropriata da mangiare? È possibile ridurre tali percezioni?

È necessario prendere in considerazione l’influenza non solo del cibo, ma anche del suo imballaggio, etichettatura e pubblicità. Ad esempio, qual è l’influenza dell’acquisto all’ingrosso? La porzione di cibo è aumentata o, in alternativa, l’acquisto di un numero elevato di articoli più piccoli riduce o aumenta il consumo?

Supponendo che la ricerca futura porti alla conclusione che la risposta a un aumento delle dimensioni della porzione è un aumento dell’assunzione di energia e una maggiore incidenza di obesità, questa intuizione può essere utilizzata per ridurre la quantità che consumiamo? Nessun approccio semplice o universale suggerisce se stesso.

A livello pratico, vari approcci sono stati suggeriti per essere utili anche se non ci sono soluzioni facili. L’individuo potrebbe ridurre la dimensione della porzione pesando tutti gli alimenti; qualcosa che è improbabile che si verifichi in maniera costante, se non durante un periodo di dieta. Potrebbe essere vendute le singole porzioni preconfezionate , anche se non è sicuro se sopravviverebbero al miglior valore offerto dall’acquisto all’ingrosso. È stato suggerito che questo problema potrebbe essere affrontato da un’adeguata strategia di determinazione dei prezzi che non renderebbe più desiderabili pacchetti più grandi. Ancora una volta, non è chiaro come possa funzionare. I costi di imballaggio aggiuntivi associati a molti piccoli articoli aumentano il costo. L’alternativa sarebbe quella di aumentare il costo di un acquisto all’ingrosso per garantire che non vi fossero incentivi finanziari per l’acquisto. È improbabile che i clienti apprezzino un tale aumento dei costi.

La recensione dell’agenzia UK Food Standards ha commentato che: “una relazione causale tra l’aumento delle dimensioni della porzione e i tassi di obesità sarebbe difficile da stabilire, a causa dei numerosi fattori di confondimento“. È difficile non essere d’accordo con questa valutazione. Anche se la dimensione della porzione è influente durante uno o pochi pasti, offre un modo pratico di intervenire per un periodo più lungo? L’interesse per la dimensione della porzione riflette la maggiore incidenza dell’obesità, e alla fine si dimostrerà utile solo se si tradurrà in un mezzo pratico e di successo per intervenire. Tali interventi dovranno essere dimostrati utili in studi a lungo termine ben controllati.

DIETA CHETOGENICA: BASI TEORICHE ED EVIDENZE SCIENTIFICHE

DIETA CHETOGENICA: BASI TEORICHE ED EVIDENZE SCIENTIFICHE

Dieta Chetogenica o Low Carb Diet?

La dieta chetogenica, ormai sulla bocca di tutti come soluzioni per ogni male, molte volte, anzi nella maggioranza dei casi, viene confusa con diete low carb.

Storicamente, le strategie dietetiche che limitano i carboidrati
sono state generalmente utilizzate per la perdita di peso, ma il loro utilizzo in campo strettamente medico è ben più ampio e radicato. Le diete low carb vengono utilizzate in pazienti con prediabete e diabete di tipo 2 per migliorare il controllo glicemico e altri fattori di rischio cardiometabolico (ad es. ipertensione e dislipidemia aterogena);

Esistono poi sono poi benefici potenziali di tali diete per altre condizioni (acne, cancro, malattie neurologiche e sindrome dell’ovaio policistico) e anche per il miglioramento delle prestazioni nei soggetti atletici. Sono stati segnalati casi aneddotici di miglioramento dell’umore, della funzione cognitiva e dei livelli di energia, che però non sono stati generalmente supportati dai risultati degli studi controllati. Inoltre, le diete a bassissimo contenuto di carboidrati sono diventate popolari a causa della percezione (alquanto discutibile) che esse siano modelli dietetici più sani di quelli attualmente raccomandati.
Di diete a basso consumo di carboidrati ne esistono a miglialia. In alcune i glucidi sono molto bassi, ma non hanno (apparenti) limitazioni di proteine ​​e grassi alimentari ( dieta tipo Atkins), mentre altre consentono l’assunzione moderata di carboidrati con concomitante moderata assunzione di proteine ​​e grassi (ad esempio, South Beach, Zone).

Le più recenti diete a bassissimi carboidrati limitano l’apporto proteico in maniera tale da indurre la chetosi, senza limitare l’apporto lipidico o le calorie totali.

Per quanto riguarda invece la famosissima dieta chetogenica, probabilmente non molti sanno che essa è stata ampiamente utilizzata per il trattamento dell’epilessia infantile fin dagli anni ’20.

MA CHE COSA INTENDIAMO PER “BASSO CONTENUTO DI CARBOIDRATI”?

La terminologia e le definizioni utilizzate per le diete low carb variano considerevolmente e sono spesso definite in base alla percentuale di energia giornaliera totale (TDEE) da carboidrati e / o dall’assunzione assoluta degli stessi.

In questo contesto, definiamo una dieta low carb come un protocollo in cui l’assunzione di carboidrati si ritrova al di sotto del limite inferiore del range di distribuzione dei macronutrienti accettabile per una popolazione adulta sana (45–65% TDE) .

Definiamo quindi una dieta a carboidrati moderati una dieta che fornisce il 26–44% di carboidrati del TDEE (130–225 grammi CHO/die per la
dieta di riferimento di 2000 kcal), una dieta a basso contenuto di carboidrati dal 10 al 25% (50–130 grammi CHO/die) e una dieta a bassissimo contenuto di carboidrati come <= 10%(50 grammi CHO/die).

DEFINIAMO LA DIETA CHETOGENICA

Dieta Chetogenica
Dieta Chetogenica

E’ importantissimo sottolineare che le diete a basso e moderato contenuto di carboidrati che hanno allo stesso tempo un moderato o alto contenuto di grassi e, soprattutto, un alto contenuto di proteine, non comportano chetosi e non possono automaticamente essere definite chetogeniche.

Per poter valutare se una dieta induce o meno chetosi, potendola definire dunque come “Dieta Chetogenica” ci si basa sul suo rapporto chetogenico, ossia il rapporto della somma di fattori chetogenici rispetto alla somma di fattori anti-chetogenici, esplicato dalla seguente formula:

Ketosis Ratio= (0.9 F + 0.46 P) / (1.0 C + 0.58 P + 0.1 F)

  • F sono i grammi di grasso
  • P sono i grammi di proteine
  • C sono i grammi di carboidrati


Il rapporto che induce costantemente la chetogenesi è di >= 2, mentre
1,5 corrisponde tipicamente alla soglia inferiore del range chetogenico.

Dieta Chetogenica, è rapporto chetogenico.

Zilberter e Zilberter ( Ketogenic ratio determines metabolic effects of macronutrients and prevents interpretive bias. Front Nutr. 2018;5: 75. ) hanno esaminato 62 studi che riportavano prescrizioni di interventi dietetici descritti come “chetogenici”, ed hanno scoperto che solo 25 dei 62 studi avevano un rapporto chetogenico >1.5, che illustra la complessità dell’interpretazione delle prove disponibili sulla dieta chetogenica, molti dei quali sembrano derivare da indagini che non hanno realmente valutato tale dieta.
Le diete low carb generalmente consentono il consumo di alimenti contenenti carboidrati che sono componenti di schemi dietetici cardioprotettivi, tra cui verdure, frutta, cereali integrali, noci, semi e legumi. Questi alimenti sono importanti fonti di fibre, magnesio, vitamine del gruppo B e composti bioattivi, come i polifenoli, tutti i quali
sono stati associati a minori rischi di dislipidemia, eventi aterosclerotici delle malattie cardiovascolari e incidenza di diabete di tipo 2.

La più popolare versione di dieta cheogenica prevede un basso contenuto di carboidrati ( circa 20-50g/die o 5-10% del TDEE), un alto contenuto di grassi (70-80% del TDEE), enfatizzando quindi la sostituzione dei carboidrati con i grassi.

Il raggiungimento della chetosi è altamente individuale, tanto che in alcune persone può essere necessario un apporto di CHO inferiore a 20g/die. Inoltre, ad un dato livello di assunzione di CHO, la quantità di proteine sembra influenzare il grado di chetosi a causa di alcuni aminoacidi
utilizzati dal nostro organismo per la gluconeogenesi (produzione di glucosio ex novo) e che sono in grado di stimolare la secrezione di insulina, che può a sua volta ridurre la produzione di chetoni da parte del fegato.

Pertanto, le attuali diete chetogeniche hanno generalmente un moderato apporto proteico (1,2–1,5 g/kg /die).

Non si danno particolari indicazioni sul tipo di grasso da utilizzare, che può comportare un elevato apporto di acidi grassi saturi e colesterolo. Inoltre, la severa restrizione di carboidrati limita automaticamente l’assunzione di verdure, oltre ad eliminare completamente la maggior parte di frutta, legumi e cereali integrali, i quali sono alimenti associati a ridotto rischio cardiometabolico.

DIETA CHETOGENICA: IMPATTO DELLA CHETOSI SUL METABOLISMO ENERGETICO

Il glucosio è in genere l’unico combustibile per il cervello umano,
in quanto gli acidi grassi non possono attraversare la barriera ematoencefalica. Quando l’assunzione di carboidrati è adeguata, l’insulina promuove la lipogenesi e sopprime la produzione di corpi chetonici;

La concentrazione di chetoni è molto bassa (<0,3 mmol / L) rispetto al glucosio ( 4 mmol / L). Dopo alcuni giorni di grave restrizione di carboidrati (<20 g/d), la produzione di glucosio nell’organismo attraverso la gluconeogenesi diventa insufficiente e il sistema nervoso centrale (SNC) richiede un’ulteriore fonte di energia. Durante l’assunzione limitata di carboidrati, si verificano la riduzione dei livelli di insulina e l’aumento concomitante di quelli del glucagone, il che influisce sulle vie metaboliche epatiche, con conseguente riduzione della lipogenesi e aumento dell’ossidazione mitocondriale di acidi grassi.

L’aumentata ossidazione di acidi grassi provoca la sovrapproduzione di acetil-CoA e la produzione di corpi chetonici nei mitocondri epatici. L’acetoacetato è il principale corpo chetonico prodotto e viene convertito in b-idrossibutirrato e acetone.

La chetosi a livello emtico è generalmente definita dal livello di b-idrossibutirrato > 0,3 mmol / L.

I corpi chetonici sono utilizzati come fonte di energia per tutti i tessuti,
soprattutto dal muscolo scheletrico e cardiaco, e, poichè essi hanno un legame di affinità simile al trasportatore di glucosio al cervello, vengono utilizzati dallo stesso come fonte di energia quando raggiungono una concentrazione plasmatica di circa 4 mmol / L.

Sulla base di ricerche che esaminano gli effetti delle diete che prevedono u semi-digiuno e carboidrati molto bassi, l’adattamento metabolico alla chetosi richiede due settimane o più per raggiungere un livello di chetoni allo stato stazionario.

Dieta Chetogenica. Tiriamo le somme!

Dopo tali considerazioni, prettamente teoriche e anche abbastanza noiose, ma assolutamente necessarie per poter capire al meglio di cosa si sta parlando, è giunto il momento di tirare le somme: cosa dicono gli studi nei riguardi della tanto osannata dieta chetogenica? Vediamole insieme.

Per prima cosa, consideriamo gli effetti delle diete a basso e bassissimo contenuto di carboidrati sulla perdita di peso:

  1. Le diete ipocaloriche a breve termine (< 6 mesi) a basso e bassissimo contenuto di CHO possono comportare una maggiore perdita di peso rispetto alle diete ipocaloriche a elevato contenuto di CHO e basso contenuto di grassi
  2. Risultati a più lungo termine (>6 mesi) suggeriscono che bassi livelli di CHO possono causare perdita di peso equivalente a quello delle diete HighCarbsLowFat (alti carboidrati e grassi bassi).
    Le diete a CHO molto basso sono difficili da mantenere e non lo sono
  3. Le diete con carboidrati molto bassi (chetogeniche) sono molto difficili da mantenere e non hanno mostrato una perdita di peso superiore rispetto alle diete che consentono una maggiore quantità di CHO negli adulti con sovrappeso e obesità con o senza diabete.
  4. Il mantenimento a lungo termine di un qualsiasi intervento di perdita di peso è difficile, ma aderire a quelle in cui i carboidrati sono bassi e soprattutto molto bassi risulta ancora più complesso.
  5. Le preferenze personali devono essere considerate al momento della selezione una dieta dimagrante.

Per quanto riguarda gli effetti sulla composizione corporea, gli studi ci dicono che:

  1. La chetosi è associata ad una consistente perdita di acqua corporea.
  2. La perdita di peso iniziale che si verifica con diete a basso contenuto di carboidrati è principalmente dovuta alla perdita di acqua corporea.
  3. Tutti gli interventi di dimagrimento con restrizione di carboidrati sembrano comportare una maggiore perdita di massa magra rispetto a diete ipocaloriche bilanciate con più macronutrienti.
  4. Un maggiore contenuto proteico nelle diete a basso contenuto di carboidrati è associato ad una minor perdita di massa magra.

Sono anche da considerare i principali problemi di sicurezza associati a questo tipo di diete, comprese la chetogenica, che variano ovviamente a seconda del livello di restrizione glucidica e delle caratteristiche individuali.

Con questo tipo di protocolli dietetici, i disturbi gastrointestinali tendono ad essere gli effetti collaterali più comuni, tra cui costipazione, nausea e dolore addominale, che sono generalmente sperimentati nelle prime settimane.

In alcuni soggetti possono sperimentare i sintomi descritti come “influenza cheto” entro 2- 4 giorni dall’inizio di una chetogenica, che può verificarsi come adattamento del corpo all’utilizzo dei chetoni come carburante energetico, con una durata che va da alcuni giorni ad una settimana, e che comprende sintomi come vertigini, affaticamento, difficoltà di allenamento, sonno scarso e costipazione.

Altri effetti avversi che sono stati fortemente segnalati includono:

  • mal di testa
  • rash cutaneo
  • crampi muscolari
  • debolezza
  • diarrea
  • disidratazione
  • ipoglicemia
  • aumento dei livelli di acido urico nel sangue e carenze di vitamine / minerali
  • L’aumento della minzione può portare a livelli ridotti di elettroliti, inclusi sodio, magnesio e potassio, e può essere associato a sintomi di ipovolemia, nonché vertigini legate alla necessità di ridurre i farmaci per l’ipertensione e / o l’iperglicemia.

Dieta Low Carb e Colesterolo

Le diete Low CARB inoltre portano ad un’alta variabilità nella risposta del colesterolo LDL.
Studi di interazione gene-nutriente dimostrano che la genetica può contribuire alla variabilità individuale nella risposta dei lipidi/lipoproteine agli interventi dietetici. Di notevole preoccupazione è l’utilizzo delle diete chetogeniche nei pazienti con ipercolesterolemia, in particolare l’ipercolesterolemia familiare (FH). I pazienti con tale disturbo hanno una predisposizione genetica all’aumento dei livelli di LDL con diete low carb e diete chetogeniche. Tali protocolli non sono in genere terapie nutrizionali congruenti per la terapia nutrizionale medica raccomandata per questi pazienti, che include una riduzione di acidi grassi saturi, acidi grassi trans,
e colesterolo alimentare. A causa dell’imprevedibile risposta del colesterolo LDL a queste diete, a tutti i pazienti che scelgono di seguire tali approcci dovrebbero essere valutati i profili lipidici basali e di follow-up delle lipoproteine
Alcuni pazienti con grave ipertrigliceridemia possono avere cause genetiche o acquisite della disfunzione o carenza della lipoproteina lipasi, con predisposizione all’ipercilomicronemia e pancreatite acuta. In questi pazienti, uns chetogenica potrebbe causa chilomicronemia e precipitare in pancreatite. I pazienti con iperchilomicronemia devono aderire a protocolli dietetici con un bassissimo contenuto di grassi (10-15% di TDEE o, 15-20 g di grassi / die);

appare quindi chiaro che in tali soggetti la chetogenica è assolutamente controindicata, almeno fino a quando la chilomicronemia non viene eliminata e, quindi, solo sotto stretta osservazione.

Dieta Chetogenica – Conclusioni

Concludendo, sebbene le a basso contenuto di carboidrati possano essere utilizzate in pratica con una stretta supervisione medica, se questa è la strategia di perdita di peso preferita scelta da un paziente, si raccomanda vivamente la transizione del paziente verso un modello dietetico più sano, che senza dubbio abbraccia le attuali raccomandazioni dietetiche per l’ideale salute cardiometabolica e cardiovascolare.
Come discusso in precedenza, gli studi hanno dimostrato che l’adesione a lungo termine ad una chetogenica è una vera e propria sfida e, nel tempo, molte persone tendono a passare a quantità di CHO più alte (130-160 g / d). E’ quindi altamente raccomandato di orientarsi verso una figura professionale che aiuti i soggetti a passare ad un modello alimentare più sano, sostenibile nel tempo e che promuova il mantenimento di un peso corporeo ridotto nel lungo termine.